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editoriale

TSO, Italia

di Giordano Cotichelli

È di qualche giorno fa la notizia di un TSO fatto ad uno studente di 18 anni in una scuola di Fano, nelle Marche, in relazione al rifiuto di indossare una mascherina. L’episodio di per sé non può essere commentato in quanto necessita di una conoscenza dei fatti e di una lettura del contesto in cui si è realizzato che credo, nonostante la miriade di articoli e editoriali scritti, non sono, e non possono essere, così immediate come si vorrebbe. Al contrario qualcosa si può dire sul comportamento dei media che hanno, nella maggioranza dei casi, funzionato da cassa di risonanza scandalistica e sguaiata di un episodio che avrebbe richiesto più prudenza nel trattare una vicenda umana – e sociale – grave e delicata.

Quello eseguito a Fano è un TSO fatto a tutta la società italiana

Ma si sa, in questo paese, come in molti altri, i canali d’informazione privilegiano molto le notizie che fanno effetto, che smuovono le viscere ed ottenebrano menti e cuori, destano orrore e servono solo a creare reazioni pulsionali.

L’Italia è al 41° posto come paese per la libertà di stampa, ma dovrebbe essere tra i primi come volgarità di stampa, nonostante molti giornalisti si spendano quotidianamente e professionalmente per informare la collettività.

Torniamo all’episodio. Altro elemento da sottolineare riguarda le istituzioni: il sindaco, la scuola, i servizi sanitari. Il rilievo da fare per un’utile lettura della vicenda è che quanto accaduto dimostra anche per le istituzioni un livello di fragilità preoccupante. Per meglio dire una loro dimensione residuale che evidenzia ancora una volta la deriva del welfare italiano.

Il fatto che il sindaco abbia sottolineato che il suo è stato un atto formale, praticamente dovuto, evidenzia il cortocircuito creatosi fra valutazione tecnocratica e mediazione politico-istituzionale. Va da sé che l’opinione di due medici assume peso di fronte alle decisioni del primo cittadino, ma la legge, nel chiamare in causa quest’ultimo, probabilmente lo fa al fine di costruire un ulteriore momento di verifica di fronte alle decisioni da prendere.

Se la prassi invece si appiattisce su automatismi da seguire, allora il rischio è quello di trovarsi di fronte, in futuro, a moduli precompilati e pre-firmati pronti all’uso. La questione è tutta qui, e non ha nulla a che vedere con il primo cittadino di Fano, va oltre. Arriva a prendere in considerazione un futuro distopico in cui è possibile un ritorno al passato (dispotico), lo stesso molto ben amato da chi oggi grida di attentati alla libertà, mentre, per voce di qualche loro solito amico chiacchierone, pochi anni fa, stando al governo, presentava la proposta di legge chiamata: “Contratto di Ulisse”, in cui si auspicava un allungamento del TSO da sette giorni a sei mesi, con possibilità di successivi e ripetuti prolungamenti. Inutile ogni commento, fatto salvo che, tale oscenità, non possa trovare spazio di applicazione in futuro.

I servizi, si diceva, appaiono dunque in questa storia come residuali, costretti ad attivare strumenti estremi in quanto altri o non ci sono, o non sono stati sufficienti, o si sono esauriti. La situazione dello stato sociale in questo paese, della scuola pubblica e dei servizi sanitari è talmente drammatica che vede le risorse umane degli operatori (la pandemia nel suo specifico lo ha pienamente dimostrato) messe continuamente sotto stress.

La dimensione collettiva ed organizzata della risposta, dell’erogazione del servizio, è appiattita sulla capacità/possibilità soggettiva del singolo professionista di sostenere il peso dei singoli bisogni presi in carico. Nello specifico del TSO adottato, ho avuto modo di rilevare i commenti di molti colleghi che lavorano nei servizi psichiatrici che, nel vivere e nel lavorare quotidianamente la dimensione psichiatrica, evidenziano le troppe difficoltà di far fronte al disagio psicologico di singoli e comunità, funzionali ad attivare sempre più risposte che alla fine rischiano di essere solo di tipo contenitivo, chimico o meccanico.

Ed in questo la professionalità, l’umanità, la progettualità e la condivisione dell’aiuto vengono stritolati dal liquame dell’onda mediatica (e dai tagli economici) e da chi ha interesse, è bene ripetere, ad un ritorno coercitivo della risposta ai bisogni: se stai male è colpa tua, se sei matto devi essere isolato, se sei gay …, se muori sul lavoro è perché qualcosa hai sbagliato.

Poi, se vieni bullizzato, come suggerisce qualche eminente figura politica nostrana, questo non è detto che sia un fatto negativo. Tutt’altro, può essere lo stimolo per migliorarti, per adeguarti, per assumere l’identità rimproverata dai tuoi stessi bullizzatori. Alla fine resta la realtà ferma di un dibattito sulla contenzione, all’interno della professione, che da anni ha bisogno di una valutazione e partecipazione maggiore di quella concesse fino ad oggi.

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