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Il Delirium e l’arte del saper osservare

di Redazione

Qualche anno fa nella sezione “Art and Medicine” di una rivista accademica e scientifica americana (JAMA) fu pubblicato un contributo molto particolare sul fine vita. Joshua Wales, medico palliativista di Toronto, descrisse in modo originale e profondo gli interrogativi sulla morte e sul paziente terminale. L’autore descrive una situazione unica, ma comune a tutti gli operatori che lavorano in cure palliative: un uomo sta morendo, ci sono tutti i segni visibili del delirium (frasi sconnesse e concitate, stridore laringeo, viso contratto, respiro rumoroso, ecc..). La mia esperienza è un po’ lontana per definizione, ma molto simile per circostanze.

Un linguaggio oscuro che non abbiamo ancora imparato a comprendere

Non lavoro in un Hospice, ma in una Medicina Interna di un piccolo ospedale di provincia, dove ci si prende cura di pazienti non solo in fase acuta, ma anche in fase terminale, anzi molto spesso, purtroppo, assistiamo alla decadenza dell’uomo di fronte alla malattia.

Frasi sconnesse e concitate, camminata instabile e agitazione psicomotoria sono la narrazione di un pomeriggio particolare dove mi trovo a rappresentare la morte. Sì, proprio così, mi trovo davanti ad un paziente che dalle 14:00 è in uno stato di delirium, tenta la fuga più volte, rischia di cadere; è disorientato, vede le quattro mura del reparto come una costrizione, vede i suoi spazi stringersi sempre di più e io sono la morte, quello che non gli permette di evadere da questo, di fuggire.

Provo a parlare con lui, mi racconta la sua vita, mi parla dei suoi figli, dei suoi trascorsi, passiamo circa venti minuti a parlare, sembra tranquillo, mi dice di voler riposare; penso ora che ho acquisito la sua fiducia, magari si tranquillizzerà.

Torno ad occuparmi degli altri pazienti, passano circa dieci minuti ed eccolo nuovamente nell’andito che giunge con un passo instabile verso di me, che mi trovo di fronte alla via d’uscita. Mi intima di spostarmi, lui deve andar via, non posso stare in questa gabbia, mi dice.

Io cerco nuovamente di spiegargli che per il suo bene è meglio stare qui, che non sta bene e che quindi non può andar via, soprattutto non da solo. Riesco a convincerlo quando una mia collega gli propone una telefonata alla moglie, che sta a casa, quindi torna in stanza. Ma questa chiamata non fa altro che agitarlo di più, la situazione sta degenerando, è sempre peggio, sempre rivolto verso di me che rappresento l’ostacolo alla fuga “da questa gabbia” ed è qui che mi rendo conto di essere la morte.

Parlo con il medico, la sua camminata è sempre più instabile, è sempre più debole, viso contratto, respiro irregolare e stridulo, ma non demorde e sta sempre in piedi, nonostante non si regga più, è necessario fare qualcosa.

Una fiala di midazolam - la stessa di Joshua Wales - e tutto cambia, riesce a modificare completamente lo scenario, il respiro diventa regolare, il viso si distende. Un cambiamento di condizione totale e in breve tempo ed è qui che sorgono mille domande. Dov’è finito quell’uomo? Ci sente? Capisce, si accorge?

Poco dopo giungono i parenti, la situazione è grave; immagino che gli interrogativi siano simili se non gli stessi nell’intimità di una stanza d’ospedale. Wales sostiene che nessuno sa rispondere a queste domande, ma il bello è pensare che possa essere in un luogo da sogno e pieno di pace come nell’interpretazione profonda di un quadro. <è>Wales continua il suo racconto parlando di un suo trascorso: il medico si trova ad assistere all’Opera “Kopernikus”, composta da Claude Viver nel 1980. Quest’ultima non è altro che “a ritual opera for the dead”, da cui era affascinato e turbato l’autore, essa rappresenta il passaggio dalla vita alla morte della protagonista Agni. La donna è accompagnata, durante questo viaggio, da figure reali e fantastiche, che appaiono e scompaiono continuamente, si crea del caos disorientante per gli spettatori lasciando un quesito interessante alla fine: e se fosse un linguaggio oscuro che noi non abbiamo ancora imparato a comprendere?

Questo caos è il delirium: questa confusione, questo parlare senza un filo logico così simile alle allucinazioni, alle frasi disconnesse. Anche la musica viene descritta da Wales come agonizzante, piena di contrasti, toni alti che si abbassano improvvisamente con la presenza di fischi e ululati, così come la musica del cervello nel suo caotico crollo finale, attraverso l’accumulo di tossine infiammatorie in cui i neuroni agonizzano.

Poi d’improvviso, nel racconto di Wales, cambia tutto: le luci e le musiche si “muovono” nella stessa direzione armonizzando la figura di Agni che sembra coinvolta in un abbraccio di luce. L’interrogazione è di semplice fattura: quanto possono insegnare Kopernikus e il racconto di Joshua Wales? Nessuno potrà mai dirlo con esattezza, né tantomeno saranno una TC o gli esami ematochimici a spiegare il processo del morire.

Ma mi piace pensare che se saremo capaci di farci suggestionare dalle diverse espressioni artistiche, forse saremo più capaci di “stare” nel momento finale, trovando “un momento di bellezza” nel caos come la mano calda di un proprio caro a chiudere il cerchio della vita.

Prendersi cura significa anche cercare di capire che cosa significhi separarsi per sempre, perché la morte rimane un mistero, ma come drammaticamente disgrega, così può profondamente unire.

  • Articolo a cura di Antonio Vittorio Melis - Infermiere
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